martedì 6 agosto 2013

Norvegia: on the road (1)

Come Simona aveva annunciato sul suo blog qualche tempo fa (qui), la mia amica e collega Sephira ha passato gli ultimi mesi in Norvegia, grazie all'opportunità offerta dal progetto Erasmus della nostra Università.
Nelle ultime settimane di permanenza ha deciso di lanciarsi nell'avventura di un viaggio on the road in questo meraviglioso paese, che evoca sempre il ricordo di leggende lontane e antichi dei biondi e pettoruti.
Ora è di nuovo a casa sana e salva e sta meglio di tutti noi messi insieme. ;)
Qui di seguito riporto il diario che ha tenuto durante il viaggio in autostop.
Sephira ci tiene a condividere la sua esperienza con noi, ed essendo una scrittrice provetta so che rimarrete affascinati oltre che dal viaggio in sé, dalle descrizioni e dalle emozioni che vi trasmetterà.

Sarà un diario a puntate, oltre che per motivi di lunghezza - e perché ci piace la suspence - per pura tempistica di revisione.

Ora sedetevi comodi e godetevi il viaggio!

Una cartina per orientarvi meglio

PROLOGO
Un viaggio si divide in tre momenti. Non troverai un viaggio che non li abbia tutti.
Per prima cosa c'è la Preparazione.
Si tratta del tempo che passa tra il "ehi, guarda che bella foto" e il "ok, domani è il grande giorno".
Il mio caso è forse un po' più complesso del solito, perché la mia avventura si è innestata nella cornice di un'avventura più grande e incredibile, cioè il mio Erasmus a Oslo. Erasmus significa tante cose. Sfide e soddisfazioni che non avrei mai immaginato. Un Erasmus in Norvegia, poi, ha qualcosa di esotico. La Scandinavia è un altro mondo, una regione da cui ci arrivano solo leggende e pettegolezzi.
Non voglio rendere questa introduzione eccessivamente lunga, ma credo sia indispensabile spendere almeno qualche riga per descrivere questa terra, in modo che capiate per quale motivo abbia deciso di intraprendere questo viaggio nella modalità che descriverò in seguito, e con quale stato d'animo sia partita.
Norvegia è: freddo, luci del nord, meraviglia, natura, pessimo cibo, amici, studenti internazionali, barbecue, coinquilini, sogni, progetti, lavoro, costi elevatissimi, sole di mezzanotte, black metal, nostalgia di casa, distanze, rosse case di legno, fiordi, crociere alcoliche, agopuntura, troll, "it doesn't exist something like bad weather, but only bad clothes", Kings of Convenience, corsi di lingua, vichinghi, corvi e sci di fondo.
La Norvegia è una certezza. Non so come saranno le cose da ora in avanti, dove andrò, o se sarò felice. Ma guardando indietro, Oslo sarà sempre un punto saldo. Ci ho vissuto per davvero, e non cambierei nulla.
Ma torniamo al viaggio.
Per prima cosa, è necessario procurarsi dei compagni. Io ho trovato compagna e destinazione durante una noiosa lezione di norvegese, a febbraio: non avevamo mai parlato molto prima di allora, ma abbiamo scoperto di essere tra i pochi che sarebbero stati ad Oslo nel mese di luglio. Entrambe volevamo approfittarne per viaggiare, e volevamo farlo mantenendo i costi più bassi possibili.
Ci siamo ripromesse di parlarne più avanti: ci siamo incontrate di nuovo a maggio. Abbiamo aperto una cartina, stabilito che avremmo voluto muoverci per una quindicina di giorni, mangiato lasagne e chiacchierato di tutt'altro.
Un mese dopo, mentre io seguivo la routine lavoro-festa-lavoro-festa-festa-festa, la mia compagna preparava un viaggio in parallelo, veniva a vivere nella mia stanza e spariva per venti giorni.
Ci siamo incontrate di nuovo due giorni prima della data prevista per la partenza.
Dominika aveva trovato una coppia di ragazzi della Repubblica Ceca tramite un sito di car-sharing; e i due erano interessati a dividere le proprie spese di viaggio con noi, se fossimo state interessate a viaggiare insieme.
Abbiamo incontrato i due ragazzi il giorno prima di partire, di fronte ad una cena estremamente piccante e a una cartina stradale piena di post-it. Avevano viaggiato a lungo, in Vietnam, Thaiandia e molte altre regioni di Asia e Europa. Ho sempre avuto un grande rispetto per i back-packers, perciò speravo in una convivenza pacifica. Credo lo sperassimo tutti e quattro - ma loro avevano macchina e caravan, mentre io e Dom soltanto gambe e tenda. Era chiaro fin da subito che, se le cose fossero andate male, loro avrebbero avuto il coltello dalla parte del manico.
Siamo partiti da Oslo nel primo pomeriggio del 24 giugno. Le nostre bergen erano pesantissime, per lo più a causa del cibo in scatola messo sul fondo. Splendeva il sole e andava tutto bene.


GIORNO I - Da Oslo a Otta (passando per Lillehammer)
Le distanze norvegesi non sono esattamente come appaiono su una cartina. Due città vicine distano almeno tre ore di macchina: raggiungere due punti sulla costa può richiedere traghetti, ponti e un zigzagare di fiordi. Il limite di velocità in autostrada, poi, è 90km/h.
Non erano ancora passati 100 km da Oslo, e già i nostri conducenti iniziavano a innervosirsi. Sembrava che l'auto avesse dei problemi: forse una perdita di olio.
Per me è difficile capire cosa stia succedendo nell'interminabile flusso di parole in lingua ceca che i miei tre compagni di viaggio si scambiano in continuazione. Raramente vengo messa a parte di informazioni importanti in inglese, e devo ricorrere a tutte le mie conoscenze linguistiche per capire cosa sia succedendo.
Arriviamo a Lillehammer sotto una pioggia scrosciante. La città ha ospitato le olimpiadi invernali svariati anni fa, ma le sue attrattive si limitano ad una chiesa e allo sky-jump. La pioggia non aiuta.
L'ora successiva mi regala le mie prime lezioni di sopravvivenza:
1. Il mio zainetto non è impermeabile.
2. Avere i piedi bagnati è uno schifo.
3. E' buona norma avere calze di ricambio a portata di mano.
Lasciamo Lillehammer con una certa fretta, sperando che il clima sia più mite a nord.
Attraversiamo pianure allagate e fiumi in piena. La valle è splendida nei rari sprazzi di luce.
Piantiamo la nostra tenda in una piazzola di sosta, beviamo del tè e ci prepariamo per la notte. Poco dopo, un camion viene a farci compagnia: il conducente prepara la sua cena su un fornito da campo situato nel retro del veicolo.


Parliamo un poco: ci dice che la politica della sua compagnia è di non accettare autostoppisti a bordo. Lui stesso ammette di aver avuto dei problemi aiutando persone rivelatesi poco raccomandabili.
La discussione ci lascia pensierose. Tutti i nostri piani si basano sulla fiducia, tra noi e verso gli altri. Se viene meno quella, siamo del tutto in balia della corrente. Siamo solo due ragazze sperdute tra le montagne della Norvegia, in una tenda accanto alla strada.


GIORNO II - Rondane Nasjonal Park
Partiamo da Otta di buon mattino, sotto un sole che ci riempie di speranze mal riposte. Abbandonati auto e caravan in una piazzola di sosta, ci apprestiamo ad affrontare le montagne del Parco Nazionale del Rondane. Ciascuno procede con il proprio passo - che significa che sono l'ultima della fila.


La strada pianeggiante costeggia un fiume e rocce argillose, la strada deserta di fronte e dietro di noi. Dopo un'ora e mezza raggiungiamo una decina di casette, in riva a un lago trasparente. Il nome del paese è Rondvassbu (che significa qualcosa come “Paesino Di Tre Case nel Parco del Rondane”). Calma, pace, vento che ulula tra le catene di monti e acqua che scroscia in silenzio. Una breve pausa su panchine di legno, mangiando frutta secca e guardando il cielo cambiare colore, e poi di nuovo in marcia.



Io e Dom abbiamo deciso di affrontare una camminata di cinque ore, raggiungendo il villaggio di Misuseren (al di fuori del parco).
La prima parte del sentiero, però, è allagata. Anche qui ha piovuto a lungo: siamo costrette ad una breve deviazione su rocce aguzze, in salita fino a raggiungere un poderoso burrone scavato da un fiume sottile. Dando le spalle a Rondvassbu, il paesaggio è già cambiato. Ci sono rocce bianche ricoperte di licheni gialli, rametti di cespugli e piccoli corsi d'acqua. A perdita d'occhio.
Iniziamo a camminare. Ovviamente rimango indietro, incapace di sostenere il tempo di Dominika. Ma, in qualche modo, mi rassicura sapere di averla lì di fronte a me. Dopotutto, intorno non c'è niente. Siamo i soli esseri umani su questa terra.


In cielo si rincorrono nuvole bianche e nuvole nere, mentre noi continuiamo a camminare. Da un segno all'altro, con una fiducia che sembra follia, nell'altopiano dove tutto è uguale. Passano le ore: nel paesaggio lunare variano solo le ombre.
Quando inizia a piovere, ogni roccia diventa più minacciosa. I miei scarponcini perdono la presa sul terreno, facendomi scivolare sul muschio e sprofondare in anfratti invisibili. Stanchezza e sfiducia.
Fino a che finalmente non raggiungiamo una piccola hytta (baita) di pietra e legno, mascherata dalla montagna.



Pranziamo al coperto, meravigliandoci della capanna e asciugandoci gli abiti. Mangio un uovo sodo seduta su una panchina di pietra, dietro l'uscio. La porta socchiusa mi ripara dal vento, e il sole fa capolino per scaldare anima e viso. Il cielo non ha confini, la terra è deserta. Sembrano essere stati creati affinchè li vedessi ora.
Ma è già tempo di rimetterci in marcia.
La pioggia riprende subito dopo.
Sassi appuntiti, licheni molli e pioggia battente, che trasforma il sentiero in un acquitrino impraticabile. Fino a che il sentiero stesso non sparisce, lasciandoci sole, fradice, stanche. Una sgradevole voce nella mia testa mi ricorda che non c'è campo. Non ci sono neppure punti di riferimento. Ma deve pur esserci una fine, no?
Continuiamo a camminare. Attraversiamo paludi, cespugli ispidi, scivoliamo, affondiamo nel fango. I ruscelli si moltiplicano, i miei piedi sono fradici negli scarponcini.
Guado un ruscello da scalza. L'acqua è più calda di quanto credessi, forse perché i miei piedi sono bollenti. Una decina di minuti di sole mi permettono di tagliare e attaccare cerotti su tutte le mie vesciche. Mi sento un po' una scout, un po' Indiana Jones e un po' squallida, perché da Dom non esce un lamento.
Ritroviamo la strada, anche se non è segnalata.
Alzo gli occhi, e il più incredibile arcobaleno che abbia mai visto mi mozza il fiato. Grido alla mia compagna di fermarsi e voltarsi indietro. L'arcobaleno è dentro una nuvola, e parte dal centro della montagna. Un semi-arco lanciato verso il cielo. Se ne avessi il tempo, mi lancerei alla ricerca della pentola d'oro. Ma la visione sparisce poco dopo, lasciandoci con qualche fotografia, più forti e fiduciose.


La vegetazione cambia all'improvviso. Compaiono passerelle in legno sulle aree di una foresta di betulle allagata.
Misuseren ci aspetta con il tuono delle sue cascate, a sette ore dalla nostra partenza.
Siamo esauste. I nostri guidatori ci aspettano a valle già da tre ore.
Jan ci lascia in un nuovo paese, di cui non ho nemmeno la forza di chiedere il nome.
Piantiamo la nostra tenda nel giardino della banca, facciamo una doccia nei bagni pubblici e mangiamo noodles istantanei nella tenda. Non ricordo nemmeno di essere andata a dormire, ma a un certo punto mi sono svegliata.


GIORNO III – Da Heidal ad Å (passando per Trondheim e Bodø)
Mi sono svegliata, e mi trovavo a Heidal. Uno dei tanti paesi minuscoli di cui è costellata la Norvegia, con la sua chiesa di legno, le colline verdeggianti abitate da mucche e pecore e una calma che non troveresti altrove.
La macchina è stata riparata mentre dormivamo. I nostri compagni sembrano avere fretta.
Se loro hanno fretta, abbiamo tutti fretta.
Sei ore a tappe forzate e siamo a Trondheim. Ci aspetta Kristyna, con una doccia, internet, tè e pasticcini. È una vecchia compagna di scuola di Dominika, e con lei condivide una gentilezza e un calore disarmanti. Vorremmo fermarci – ma dobbiamo già ripartire.
Verso Nord. Sempre verso Nord.
Ci fermiamo solo per fare benzina. Ci lasciamo dietro la notte, il tramonto e il sole. Attraversiamo il Circolo Polare Artico alle 3 am. Poco prima, incrociamo un ragazzo che fa jogging con la musica nelle orecchie; poco dopo, un'alce enorme,
Jan e Dana si danno il cambio alla guida per tutta la notte – anche se è difficile parlare di notte in questo mondo di luce soffusa e luce intensa. Per qualche motivo sembra che i nostri rapporti si siano raffreddati. Forse, l'aver lasciato il caravan a Trondheim li fa sentire più vulnerabili?
Quale che sia il motivo, sia io che Dom non vediamo l'ora di esserne indipendenti. Hanno anche smesso di offrirci l'acqua calda, cosa che ha reso i nostri pasti ancora più poveri.
Ci imbarchiamo alle 5 am. Mi addormento subito, cullata dal rollare del traghetto.
Quattro ore più tardi siamo ad Å. Siamo sulle Isole Lofoten.
Se me l'avessero detto un anno fa, non l'avrei creduto possibile. A dire il vero, non avrei nemmeno saputo indicarle sulla cartina.
Ma il viaggio è fatto anche di questo. Crescita e meraviglia. Un'alba trasparente come vetro.


GIORNO IV - Å (Lofoten Islands)
Å è l'ultima lettera dell'alfabeto norvegese, e l'ultima località dell'autostrada E10, che abbiamo percorso in tutta la sua lunghezza. Gli abitanti dicono che con Å finisce il mondo.
Anche se so che non è così, perchè sono stata ancora più a Nord (a Kirkenes e a Tromso), qui c'è davvero qualcosa che sa di eternità.
Il primo insediamento è preistorico (francesi a caccia di renne vissute 12 000 anni or sono), e nei secoli si sono succeduti popoli e abitanti. Sami, norvegesi, persino profughi italiani di una nave veneta (grazie a cui ancora oggi mangiamo stoccafisso sotto Natale).
Qui, il sistema di classi e aristocrazia è ancora vivo sotto le pelle: la vecchia nobiltà, arcigna e altezzosa, guarda i turisti entrare e uscire dai propri – espropriati – storici possedimenti.
Visitiamo una di queste strutture, convertita in museo e dedicato alla vita dei pescatori e ai prodotti della lavorazione del merluzzo.
Sembra che l'olio di fegato di merluzzo sia una panacea: usato per combattere il rachitismo, contro l'insorgere di malattie come l'Alzhaimer, ricco di vitamine A,B e D. Ma anche utilizzato per impermeabilizzare gli stivali, oppure, ridotto a polvere finissima, per dipingere i muri delle case di bianco e rosso.
In effetti, Å è tutta rossa e di legno, costruita su palafitte. L'odore di merluzzo (“è l'odore del denaro” - dicono qui, - “e il denaro non puzza mai”) è onnipresente, come pure le teste mozzate del pesce che, appeso e secco, resiste alle insidie di uccelli e insetti.

LORO ti stanno guardando.

Il sole colore acqua e montagne. L'aria è chiara e il vento fresco fa leggermente rabbrividire. Le montagne sembrano così vicine!
Così verdi e segnate dal passaggio del ghiaccio, sembrano vecchie cicatrici su un corpo anziano e ancora prestante.
La costa è il regno incontrastato dei gabbiani, ma oltre attende in agguato il terribile mælstrøm, il gorgo che inghiotte insieme pesci, navi e storie.


I marinai ne avevano tante. Per esempio, c'è tutta la faccenda del “crown cod”, il merluzzo con la testa tonda. Catturarlo porta fortuna, perchè lo segue da presso il presso il resto della plebe marina. E, una volta secco, appeso alla trave del soffitto, è in grado di prevedere se ci sarà bel tempo. A dispetto delle mie brillanti supposizioni sul funzionamento di tale marchingegno, mi viene comunicato che si tratta di un semplice fenomeno fisico: la corda si allenta o tende con l'umidità dell'aria, facendo girare il merluzzo da una parte o dall'altra.
E ancora: come decidere dove pescare?
Niente di meglio di una bella ciotola di latta, in cui disegnare tanti spicchi quante sono le sezioni di mare. Versatavi dell'acqua, si raggiungerà con fiducia il luogo di formazione delle bolle.
Weronika, una ragazza polacca, è la nostra guida nel museo. Al termine del giro, rimane a lungo a parlare con noi: discutiamo di passato e presente, delle Lofoten e di quel miracolo tutto umano che ci permette di comunicare e comprenderci pur venendo da luoghi così lontani. Ci invita a partecipare ad un'escursione serale a caccia del sole di mezzanotte, ma la stanchezza ci spinge a rifiutare.
Trascorriamo invece un delizioso pomeriggio sdraiate sul versante ovest della montagna, guardando il lago e chiacchierando.


La sera piantiamo la tenda di fronte all'oceano, nel verde di uno strapiombo, tra rocce levigate da vento e secoli. Il sole è ancora alto: facciamo un'ultima scorribanda in paese, alla ricerca di un tè caldo. Mentre camminiamo con le nostre tazze in mano, incuranti degli sguardi perplessi dei turisti, incontriamo un gruppo di pescatori. Sembrano entusiasti: si fanno fotografare, e ci invitano a sbudellare una delle creature strappate agli abissi.

Io, Domcha e il pesce. Zoom sul terrore nei nostri occhi.

Decliniamo gentilmente e ce la diamo a gambe.
Musica e una luce tenue che non ferisce gli occhi, riflessa dall'oceano.
É trascorsa da tempo la mezzanotte, ma nel paradiso è sempre giorno.


GIORNO V – Reine, Ramberg, Henningsvær, Kamelvåg Non necessariamente in quest'ordine (Lofoten Islands).
Meraviglioso risveglio nel vento salmastro, con la tenda inondata di luce e l'erba agitata dalla brezza. Siamo pronte a ripartire quasi troppo in fretta... E infatti aspettiamo parecchio i nostri compagni di viaggio, che hanno trascorso la notte nel parcheggio (il motivo è, a distanza di mesi,
ancora inspiegabile).
Lasciamo Å e procediamo per circa mezz'ora verso Est. All'imbocco di una galleria, una strada asfaltata si trasforma in sentiero, e sale tra i tralicci dell'alta tensione. Sparisce quasi subito nella vegetazione, ma noi sappiamo che conduce in alto, fino alla vetta.
Decisa la meta, ci incamminiamo – come sempre, rimango subito indietro (questo diario non fa particolarmente onore alle mie doti atletiche, vero?).
Così, ancora una volta, mi ritrovo sola sul sentiero polveroso, con un sole che batte impietoso e il bisogno di fermarmi ogni due metri a riprendere fiato. La salita è ripida e, me ne rendo conto troppo tardi, pericolosa.
In alcuni passaggi sono costretta a procedere a tentoni, schiacciandomi contro il versante della montagna. Talvolta è necessario arrampicarsi, e in alcuni punti delle corde permettono di salire più agevolmente. Cerco di guardare solo in alto, perché guardando indietro mi sono sentita mancare. Vertigini. Un pessimo momento per scoprire di avere paura delle altezze. Mi vedo già a valle in una pozza di sangue e ossa scomposte, sfracellata nel tentare la discesa.
Sul sentiero stretto, non ci sono posti in cui fermarsi.
Posso solo continuare a salire.
Una dozzina di metri sopra di me c'è un altro ragazzo: superarlo diventa l'obbiettivo della mia esistenza. Sono abbastanza sicura che, se cadessi, il suo strato d'adipe potrebbe salvarmi la vita.
Quindi saliamo, e saliamo. Ci aspettiamo a vicenda, di comune accordo ma senza dirci nulla.
E quando alla fine non ci speravo più, mi sento chiamare dalla vetta: è Dominika, che fa lo stambecco. Ma con quale energia?


D'accordo, la vista ripaga di ogni fatica. Anche se ho creduto davvero che sarei morta. Anche se, nel tempo che mi ci è voluto, il cielo si è rannuvolato. Chissenefrega.
Soffia un piacevole vento freddo, tra le montagne aguzze e il mare dal colore impossibile.
E sono viva per raccontarlo. La discesa, dopotutto, non mi è stata fatale.

Chi è questa gnocca? Eh? Eh?!
Torniamo in macchina quasi volando. Una sosta di neanche mezz'ora a Reine, splendida dalla costa come dall'alto.


I nostri conducenti corrono.
Superiamo spiagge candide dall'acqua gelida, ruscelli che dalla montagna innevata entrano dell'oceano. Una lunga strada panoramica unisce tutte le isole.

Benvenuti nell'Artico. Non ci fareste un tuffo?
Traghetto verso la terraferma.
Questo viaggio è stato troppo breve. C'è tanto altro da vedere!
Ma, ormai, il nostro timone è rivolto a Sud.

Ha det bra, Lofoten!

GIORNO VI – Arctic Circle, 66° 33'
Ho attraversato il Circolo Polare Artico! E, questa volta, l'ho fatto da sveglia.
Si trova in un posto ventoso, dalle montagne innevate.
Mi sono sentita un'esploratrice, e così libera!


Ho incontrato i primi italiani dall'inizio del nostro viaggio, e una coppia di simpaticissimi e arzilli anziani tedeschi. Giusto il tempo per le foto di rito, i souvenir e i cumuli vichinghi. Siamo di nuovo in cammino.
Attraversiamo Mo i Rana, città a vocazione industriale, Mosjøen, cittadina dalle abitazioni caratteristiche. Visitiamo Steinkjer, alla vana ricerca di una cascata. Troviamo invece tumuli, pietre sacrificali e lapidi di epoca vichinga a Hammer.
Nel tardo pomeriggio siamo di nuovo a Trondheim.
Tiriamo un sospiro di sollievo: abbiamo lasciato la coppia con un certo astio, per motivi pecuniari. La conversazione sembrava destinata a finire nel sangue, ma in qualche modo ce la caviamo.
Kristyne ci consola con una cena calda, una doccia e la lavatrice.
Al diavolo Jan e Dana.
Ci aspettano ancora centinaia di chilometri. E siamo libere di scegliere come affrontarli.



Continua...